di Federica Righini e Riccardo Zadra.
Articolo pubblicato su “Apprendimento, perfezionamento musicale e performance. Metodologie e nuove prospettive per un approccio integrato” Conservatorio F.A. Bonporti di Trento. Convegno di studi 5/9 maggio 2007. Stampato da CLEUP, Padova.
Recentemente negli Stati Uniti si è acceso un di battito pubblico sulla proposta di proibire l’uso di iPod da parte dei maratoneti; molti ritengono infatti che la musica abbia un potere eccitante e possa quindi alterare in qualche modo le prestazioni degli atleti. Una specie di ‘doping’ naturale, insomma.
Intervistato al riguardo sul quotidiano La Repubblica, il celebre direttore d’orchestra Daniel Oren ha negato seccamente che la musica possa avere un qualunque influsso sul corpo e ha affermato che essa può soltanto “staccare la mente dalla realtà terrena e portare quasi ad annullare le facoltà del corpo”.
Senza negare la nobiltà di intenti che intende esprimere un tale messaggio, è difficile, leggendolo, evitare di constatare una volta di più quanto la musica classica sia rimasta ancorata a modelli culturali arcaici, obsoleti e soprattutto estremamente limitanti. Presa alla lettera, questa asserzione potrebbe portare a sostenere, paradossalmente, che il movimento e la danza non sono influenzate dalla musica o che le emozioni e le sensazioni prodotte dalla musica non hanno alcuna relazione o influenza sul corpo.
Le conseguenze di un simile presupposto sono certamente all’origine di una certa arretratezza della formazione dei musicisti, che vengono poco educati alla consapevolezza corporea, con tutte le conseguenze che ne derivano; poco abituati a conoscersi e ‘percepirsi’, tendono a sviluppare una scarsa confidenza verso i loro processi interiori, le loro emozioni e i loro meccanismi creativi.
Per lungo tempo, nell’ambito musicale accademico, è stato quasi un tabù parlare di problematiche quali la paura del pubblico, l’ansia da prestazione, i blocchi emotivi o anche solo delle tensioni muscolari legati a posture scorrette; questa reticenza, ancor oggi non sempre facile da superare, finisce per ingenerare col tempo una confusione nella percezione di sé, nella consapevolezza dei propri valori e dei propri obiettivi, contribuisce a perpetuare metodi di studio inefficaci e incentiva la frustrazione nella relazione con lo strumento e con la professione del musicista.
Sotto il nome di ‘Psicofisiologia dell’esecuzione musicale’ indichiamo la pratica, lo sviluppo e l’insegnamento di quanto abbiamo sperimentato in oltre vent’anni di esplorazione delle discipline e scuole, le più diverse, dedicate alla crescita personale, alla consapevolezza corporea, all’espansione del potenziale creativo. La Programmazione Neuro-Linguistica, il metodo Feldenkreis, l’Integrazione posturale, la Bioenergetica, tanto per citarne alcuni, ci hanno aperto entusiasmanti orizzonti e strade di cambiamento, stimolandoci a sperimentare la loro possibile applicazione nell’ambito della musica; su noi stessi come musicisti e sui nostri allievi in quanto didatti.
La denominazione di ‘Psicofisiologia’ ha quindi lo scopo di sottolineare l’unità fondamentale corpo/coscienza; attraverso una calibrata sintesi tra gli aspetti fisiologici e psicologici della ‘performance’ musicale e la comprensione della loro interrelazione è possibile affrontare in modo efficace e creativo le problematiche più comuni tra i musicisti. Inoltre, ancor più importante, la consapevolezza psico-fisica offre chiavi sorprendenti per tutto ciò che riguarda il processo di interiorizzazione e maturazione di un’interpretazione musicale. Nel nostro lavoro, cerchiamo di sintetizzare in un modo sempre più semplice, pratico e diretto le esperienze e le conoscenze acquisite nel tempo per fornire ai musicisti esperi enze di cambiamento immediate e strategie facilmente assimilabili e ripetibili.
Il naturale sviluppo di questa ricerca è anche quello di esplorare e sperimentare come e in che modo i musicisti, anche coloro che hanno già una buona relazione con la loro attività, possono ulteriormente espandere le loro capacità e superare i loro attuali limiti. La ‘Psicofisiologia dell’esecuzione musicale’ offre quindi non solo strategie e supporto per la risoluzione di ‘problemi’, ma si occupa anche di studiare modelli di eccellenza che possano essere replicati e insegnati. I musicisti vengono incoraggiati ad assumersi pienamente la responsabilità della propria crescita artistica, professionale e personale, a confrontarsi con le loro aspirazioni e motivazioni profonde e a migliorare la loro relazione con la musica e con la loro identità di musicista.
Uno scopo ancora più ampio della ‘Psicofisiologia dell’esecuzione musicale’, infine, è quello di dare l’opportunità di una riflessione sul ruolo del musicista oggi; aiutando soprattutto a comprendere come ognuno di noi, con l’atteggiamento, le convinzioni, le comunicazioni, i comportamenti, le scelte (consapevoli o meno) che e sprime, è responsabile dell’ambiente nel quale vive e lavora.
Nata inizialmente con un approccio specificamente pianistico, negli anni la sperimentazione si è estesa ad altri strumenti; nel 2004 la ‘Psicofisiologia dell’esecuzione musicale’ è stata proposta al Conservatorio di Adria ed approvata dal ministero come materia obbligatoria per tutti gli studenti dell’ indirizzo interpretativo nell’ambito del biennio sperimentale post-diploma). I nostri corsi sono stati poi effettuati e ripetuti in altri Conservatori (Mantova, Trento, Trieste, Vicenza), scuole private, corsi estivi e naturalmente presso la nostra Accademia pianistica a Padova. Fino ad oggi, sono stati frequentati da più di 500 studenti tra pianisti, organisti, chitarristi, strumentisti ad arco, a fiato, percussionisti, compositori e jazzisti di età compresa tra i 20 e i 50 anni a diversi livelli di formazione (studenti appena diplomati, professori d’orchestra, docenti di conservatorio, medie sperimentali, istituti privati). Monitorati attraverso questionari anonimi, hanno rivelato una percentuale di successo oltre il 90%, a testimonianza non solo della qualità del lavoro, ma anche dell’esigenza diffusa di una simile disciplina. Dopo l’esperienza iniziata ad Adria sono stati aperti altri corsi analoghi in molti altri conservatori e il successo ottenuto con l’approvazione ministeriale ha indotto altre scuole ad adottare la stessa denominazione.
Come spesso accade nella formazione scolastica di ogni tipo, anche in quella musicale il focus principale viene indirizzato più su ‘cosa’ si impara, sui contenuti, che su ‘come’ si impara. Su ‘cosa’ sai, o sai fare, più che su ‘come’ lo fai o ‘come’ lo sai, o magari su ‘come’ stai vivendo quello che fai. In effetti, operare su questi livelli implica un salto di coscienza, un cambio di punto di vista oltre la superficie del fenomeno dell’apprendimento per cercare di entrare nella ‘stanza dei ‘bottoni’. Assumere una prospettiva più ampia che cerca di comprendere cosa facciamo dentro di noi, nella nostra mente, nel nostro corpo, quando ci sentiamo paralizzati dalla paura o, al contrario, quando diamo il meglio di noi stessi; quando siamo frustrati e insoddisfatti o quando siamo creativi ed efficaci. E’ in questo senso che intendiamo il detto: ‘la conoscenza è potere’. Conoscersi permette di gestirsi meglio, di migliorarsi, di scoprire nuove possibilità di scelta.
Abbiamo individuato una serie di ambiti di base fondamentali della ‘Psicofisiologia dell’esecuzione musicale’. Ecco una breve sintesi di alcuni di essi.
Il gioco interiore
E’ facile comprendere il nesso tra lo stato interiore di un musicista e la sua resa artistica, sia essa in pubblico o nella relazione quotidiana con lo strumento, nelle prove di preparazione come nell’insegnamento. Lo stato è l’insieme di pensieri, atteggiamenti, emozioni e condizioni fisiche che fanno per così dire da sfondo ad una determinata si tuazione; nel nostro caso, una performance musicale. Molti studi hanno evidenziato come proprio l’abilità di gestire il proprio stato psicofisico è la capacità comune più importante di tutte quelle persone, che, in ogni ambito, conseguono risultati importanti. Si possono osservare musicisti che letteralmente si ‘programmano’ per entrare instati emozionali negativi o limitanti, attraverso i pensieri, gli atteggiamenti fisici e le emozioni che coltivano quotidianamente (e spesso inavvertitamente) dentro di loro. Qualcuno nutre la convinzione che uno stato di sicurezza e libertà creativa sia riservato a persone speciali, di talento, che accada per caso o che sia qualcosa di completamente al di fuori del suo controllo. Alcuni musicisti, quando suonano, si sentono in balìa delle proprie emozioni del momento, o di situazioni esterne; altri invece sono abituati ad entrare in uno stato ottimale in modo inconscio, quasi automatico, ma non sono in grado di capire in che modo lo fanno e si trovano in difficoltà quando non riesce loro in modo spontaneo. Altri, infine, si ‘adattano’ a suonare in stati di sforzo, ansia e tensione quasi disumani, nella convinzione che, almeno per loro, sia l’unico modo possibile di affrontare la difficoltà strrumentale o lo stress dell’esibizione pubblica.
Chiunque può imparare a richiamare, ‘rievocare’ consapevolmente stati positivi, potenzianti, attraverso i pensieri, le immagini mentali, gli atteggiamenti fisici, le decisioni che coltiva e persegue attivamente. La Programmazione Neuro-Linguistica (Pnl), fondata negli anni ’70 da Bandler e Grinder, ha elaborato un insieme di conoscenze e strumenti estremamente raffinati per per imparare a ‘ricreare’ uno stato desiderato, lavorando sul gioco interno delle rappresentazioni mentali, della fisiologia e sull’uso consapevole del linguaggio. La Pn offre un set di strumenti sofisticatissimi e preziosi per un musicista che voglia scoprire in che modo si sta ‘programmando’, e quale sia la relazione tra le sue scelte quotidiane, i suoi pensieri e le sue attitudini fisiche con i risultati che consegue nella vita.
“Non correre!” “Non avere paura!” “Non devo sbagliare!” sono espressioni tipiche, che nella stragrande maggioranza dei casi sortiscono l’effetto opposto a quello che vorrebbero ottenere. Si sa che il ‘non’ e le negazioni finiscono per avere un potere di attrazione fatale per l’inconscio che viene ‘calamitato’ proprio nella direzione che si vorrebbe evitare. O quando sentiamo dire: “Non sono mai riuscito a suonare bene in pubblico”, “Mi capita sempre così”; espressioni che trasformano le esperienze in qualcosa di assoluto, e ‘cancellano’ dalla percezione e dal ricordo quelle esperienze o quegli aspetti positivi che potrebbero invece fungere da presupposto costruttivo per un miglioramento.
Sono piccoli esempi del potere del linguaggio nel limitare o potenziare le risorse creative; altrettanto importante è il modo in cui immaginiamo noi stessi e la realtà; quella che in Pnl viene chiamata la nostra ‘mappa del mondo’. Mappa che viene costruita attraverso le immagini, i suoni, le sensazioni che creiamo inconsciamente e consciamente nel nostro cervello e che influenzano ogni nostro comportamento. Quanti musicisti si ‘immaginano’ già di fallire ancor prima della loro esibizione? Quanti invece hanno immagini di sé potenzianti e stimolanti? E come fare per iniziare a ‘giocare’ con le rappresentazioni interne in modo
da sostenere e rinforzare la nostra performance e, più in generale, la nostra creatività, la nostra sicurezza, il nostro benessere?
La possibilità di rispondere a queste domande, anche attraverso un lavoro personalizzato, capace di entrare nella specificità dei meccanismi soggettivi (sempre profondamente diversi) di ognuno, può fare la differenza nella vita di un musicista. E’ facile comprendere il nesso tra lo stato interiore di un musicista e la sua resa artistica, sia essa in pubblico o nella relazione quotidiana con lo strumento, nelle prove di preparazione come nell’insegnamento. Lo stato è l’insieme di pensieri, atteggiamenti, emozioni e condizioni fisiche che fanno per così dire da sfondo ad una determinata si tuazione; nel nostro caso, una performance musicale. Molti studi hanno evidenziato come proprio l’abilità di gestire il proprio stato psicofisico è la capacità comune più importante di tutte quelle persone, che, in ogni ambito, conseguono risultati importanti. Si possono osservare musicisti che letteralmente si ‘programmano’ per entrare instati emozionali negativi o limitanti, attraverso i pensieri, gli atteggiamenti fisici e le emozioni che coltivano quotidianamente (e spesso inavvertitamente) dentro di loro. Qualcuno nutre la convinzione che uno stato di sicurezza e libertà creativa sia riservato a persone speciali, di talento, che accada per caso o che sia qualcosa di completamente al di fuori del suo controllo. Alcuni musicisti, quando suonano, si sentono in balìa delle proprie emozioni del momento, o di situazioni esterne; altri invece sono abituati ad entrare in uno stato ottimale in modo inconscio, quasi automatico, ma non sono in grado di capire in che modo lo fanno e si trovano in difficoltà quando non riesce loro in modo spontaneo. Altri, infine, si ‘adattano’ a suonare in stati di sforzo, ansia e tensione quasi disumani, nella convinzione che, almeno per loro, sia l’unico modo possibile di affrontare la difficoltà strrumentale o lo stress dell’esibizione pubblica.
Chiunque può imparare a richiamare, ‘rievocare’ consapevolmente stati positivi, potenzianti, attraverso i pensieri, le immagini mentali, gli atteggiamenti fisici, le decisioni che coltiva e persegue attivamente. La Programmazione Neuro-Linguistica (Pnl), fondata negli anni ’70 da Bandler e Grinder, ha elaborato un insieme di conoscenze e strumenti estremamente raffinati per imparare a ‘ricreare’ uno stato desiderato, lavorando sul gioco interno delle rappresentazioni mentali, della fisiologia e sull’uso consapevole del linguaggio. La Pn offre un set di strumenti sofisticatissimi e preziosi per un musicista che voglia scoprire in che modo si sta ‘programmando’, e quale sia la relazione tra le sue scelte quotidiane, i suoi pensieri e le sue attitudini fisiche con i risultati che consegue nella vita.
“Non correre!” “Non avere paura!” “Non devo sbagliare!” sono espressioni tipiche, che nella stragrande maggioranza dei casi sortiscono l’effetto opposto a quello che vorrebbero ottenere. Si sa che il ‘non’ e le negazioni finiscono per avere un potere di attrazione fatale per l’inconscio che viene ‘calamitato’ proprio nella direzione che si vorrebbe evitare. O quando sentiamo dire: “Non sono mai riuscito a suonare bene in pubblico”, “Mi capita sempre così”; espressioni che trasformano le esperienze in qualcosa di assoluto, e ‘cancellano’ dalla percezione e dal ricordo quelle esperienze o quegli aspetti positivi che potrebbero invece fungere da presupposto costruttivo per un miglioramento.
Sono piccoli esempi del potere del linguaggio nel limitare o potenziare le risorse creative; altrettanto importante è il modo in cui immagniamo noi stessi e la realtà; quella che in Pnl viene chiamata la nostra ‘mappa del mondo’. Mappa che viene costruita attraverso le immagini, i suoni, le sensazioni che creiamo inconsciamente e consciamente nel nostro cervello e che influenzano ogni nostro comportamento. Quanti musicisti si ‘immaginano’ già di fallire ancor prima della loro esibizione? Quanti invece hanno immagini di sé potenzianti e stimolanti? E come fare per iniziare a ‘giocare’ con le rappresentazioni interne in modo
da sostenere e rinforzare la nostra performance e, più in generale, la nostra creatività, la nostra sicurezza, il nostro benessere?
La possibilità di rispondere a queste domande, anche attraverso un lavoro personalizzato, capace di entrare nella specificità dei meccanismi soggettivi (sempre profondamente diversi) di ognuno, può fare la differenza nella vita di un musicista.
Attenzione e apprendimento.
Con l’attenzione diventiamo consapevoli delle nostre percezioni, ad esempio, la qualità di un suono o una sensazione corporea. Con l’attenzione facciamo scomparire le cose; come quando, concentrati su una lettura, non sentiamo i suoni intorno a noi; oppure le facciamo comparire, come quando, impegnati in una azione importante, improvvisamente ci rendiamo conto di essere in apnea e con un respiro profondo ci liberiamo delle nostre tensioni.
Molte religioni e discipline spirituali utilizzano la gestione dell’attenzione come principale veicolo di potere personale e crescita spirituale; quasi tutte le pratiche meditative hanno in comune, essenzialmente, l’obiettivo di disciplinare o liberare la mente attraverso l’uso mirato dell’attenzione. Alcune tradizioni antiche, come il Taoismo, considerano l’attenzione come una energia che plasma la realtà. Nel secolo scorso, la fisica quantistica è arrivata a determinare che l’attenzione dell’osservatore influenza il comportamento delle particelle; in alcuni esperimenti, le particelle sembrano esistere solo nel momento in cui c’è qualcuno che le osserva.
Ogni volta che portiamo l’attenzione e la consapevolezza su un aspetto della realtà, questo diventa più presente e reale, come quando sviluppiamo una propriocezione raffinata delle nostre dita mentre facciamo pratica su di uno strumento. Come recita un antico principio, ciò su cui mettiamo l’attenzione cresce e si espande, mentre ciò che ignoriamo smette di crescere e muore.
La capacità personale di gestire l’attenzione è uno strumento fondamentale per imparare a “sentire” non solo la musica, ma anche le emozioni, il corpo; per riconoscere gli effetti dei pensieri (consci e inconsci) sulla percezione musicale, sulla qualità dello studio e quella della esecuzione.
Una delle caratteristiche comuni alle persone che riescono veramente bene in qualcosa è naturalmente la forte motivazione interiore, che si manifesta innanzitutto attraverso una gestione disciplinata della propria attenzione: essi decidono momento per momento su cosa vogliono concentrarsi e non sono facilmente preda di spinte e distrazioni esterne. Vivono la disciplina come il risultato di una spinta interiore della loro volontà, mentre coloro che la vivono come un dovere o un obbligo soffrono più facilmente di cali di concentrazione, di dispersioni di tempo e di energia.
Uno dei principali compiti della Psicofisiologia è quello di permettere ai partecipanti dei corsi di mettere a fuoco come usano la loro attenzione e verificare in che misura le loro abitudini sono di aiuto o di freno alle loro attività. Con alcuni semplici esercizi vengono sperimentate le relazioni tra apprendimento, volontà e attenzione in modo da recuperare un livello di apprendimento e di performance efficace e senza sforzo. L’eccesso di sforzo nella concentrazione è, infatti, indice di conflitti interiori tra motivazioni diverse (per esempio, tra il senso del ‘dovere’ e ciò che si vuole o desidera realmente).
Uno dei primi ‘segreti’ dell’attenzione è di imparare a dirigerla oltre la paura, le limitazioni, le difficoltà, verso i risultati che si intende conseguire. La classica ‘paura di sbagliare’ spesso si risolve con un semplice allenamento a re-indirizzare costantemente il proprio del ‘focus’ dall’errore (con tutta la scia di autobiasimo e frustrazione che si porta dietro) alla rappresentazione interiore del risultato (l’interpretazione musicale e l’obiettivo che si intende raggiungere). Questo avviene letteralmente ‘occupando’ la mente in altre azioni, ad esempio cantando interiormente, focalizzandosi sulle sensazioni fisiche, dicendo dentro di sé i nomi delle note, muovendo qualche parte del corpo in modo da allinearla al ritmo del brano, e via dicendo.
Un tipico modo di perdere il controllo dell’attenzione nell’esecuzione musicale è quando il musicista inizia ad ascoltare il suo dialogo interno. Il dialogo interno è quella funzione che ci permette di parlare con noi stessi per ragionare e codificare le nostre sensazioni e le nostre esperienze, ma può arrivare a ‘invadere’ il campo dell’attenzione, interferendo con giudizi e commenti, per lo più negativi (‘Sei il solito’, ‘Anche stavolta ho sbagliato’ ‘Non ce la farò mai’). Risucchiata da ciò che è avvenuto o dal timore di ciò che accadrà, la mente, immersa in un ‘cicaleccio’ interiore, viene spostata fuori dal flusso del tempo e distoglie il musicista dall’ascolto del suono. Il dialogo interno scatta in automatico e può richiedere adeguate strategie per gestirlo.Con l’attenzione diventiamo consapevoli delle nostre percezioni, ad esempio, la qualità di un suono o una sensazione corporea. Con l’attenzione facciamo scomparire le cose; come quando, concentrati su una lettura, non sentiamo i suoni intorno a noi; oppure le facciamo comparire, come quando, impegnati in una azione importante, improvvisamente ci rendiamo conto di essere in apnea e con un respiro profondo ci liberiamo delle nostre tensioni.
Molte religioni e discipline spirituali utilizzano la gestione dell’attenzione come principale veicolo di potere personale e crescita spirituale; quasi tutte le pratiche meditative hanno in comune, essenzialmente, l’obiettivo di disciplinare o liberare la mente attraverso l’uso mirato dell’attenzione. Alcune tradizioni antiche, come il Taoismo, considerano l’attenzione come una energia che plasma la realtà. Nel secolo scorso, la fisica quantistica è arrivata a determinare che l’attenzione dell’osservatore influenza il comportamento delle particelle; in alcuni esperimenti, le particelle sembrano esistere solo nel momento in cui c’è qualcuno che le osserva.
Ogni volta che portiamo l’attenzione e la consapevolezza su un aspetto della realtà, questo diventa più presente e reale, come quando sviluppiamo una propriocezione raffinata delle nostre dita mentre facciamo pratica su di uno strumento. Come recita un antico principio, ciò su cui mettiamo l’attenzione cresce e si espande, mentre ciò che ignoriamo smette di crescere e muore.
La capacità personale di gestire l’attenzione è uno strumento fondamentale per imparare a “sentire” non solo la musica, ma anche le emozioni, il corpo; per riconoscere gli effetti dei pensieri (consci e inconsci) sulla percezione musicale, sulla qualità dello studio e quella della esecuzione.
Una delle caratteristiche comuni alle persone che riescono veramente bene in qualcosa è naturalmente la forte motivazione interiore, che si manifesta innanzitutto attraverso una gestione disciplinata della propria attenzione: essi decidono momento per momento su cosa vogliono concentrarsi e non sono facilmente preda di spinte e distrazioni esterne. Vivono la disciplina come il risultato di una spinta interiore della loro volontà, mentre coloro che la vivono come un dovere o un obbligo soffrono più facilmente di cali di concentrazione, di dispersioni di tempo e di energia.
Uno dei principali compiti della Psicofisiologia è quello di permettere ai partecipanti dei corsi di mettere a fuoco come usano la loro attenzione e verificare in che misura le loro abitudini sono di aiuto o di freno alle loro attività. Con alcuni semplici esercizi vengono sperimentate le relazioni tra apprendimento, volontà e attenzione in modo da recuperare un livello di apprendimento e di performance efficace e senza sforzo. L’eccesso di sforzo nella concentrazione è, infatti, indice di conflitti interiori tra motivazioni diverse (per esempio, tra il senso del ‘dovere’ e ciò che si vuole o desidera realmente).
Uno dei primi ‘segreti’ dell’attenzione è di imparare a dirigerla oltre la paura, le limitazioni, le difficoltà, verso i risultati che si intende conseguire. La classica ‘paura di sbagliare’ spesso si risolve con un semplice allenamento a re-indirizzare costantemente il proprio del ‘focus’ dall’errore (con tutta la scia di autobiasimo e frustrazione che si porta dietro) alla rappresentazione interiore del risultato (l’interpretazione musicale e l’obiettivo che si intende raggiungere). Questo avviene letteralmente ‘occupando’ la mente in altre azioni, ad esempio cantando interiormente, focalizzandosi sulle sensazioni fisiche, dicendo dentro di sé i nomi delle note, muovendo qualche parte del corpo in modo da allinearla al ritmo del brano, e via dicendo.
Un tipico modo di perdere il controllo dell’attenzione nell’esecuzione musicale è quando il musicista inizia ad ascoltare il suo dialogo interno. Il dialogo interno è quella funzione che ci permette di parlare con noi stessi per ragionare e codificare le nostre sensazioni e le nostre esperienze, ma può arrivare a ‘invadere’ il campo dell’attenzione, interferendo con giudizi e commenti, per lo più negativi (‘Sei il solito’, ‘Anche stavolta ho sbagliato’ ‘Non ce la farò mai’). Risucchiata da ciò che è avvenuto o dal timore di ciò che accadrà, la mente, immersa in un ‘cicaleccio’ interiore, viene spostata fuori dal flusso del tempo e distoglie il musicista dall’ascolto del suono. Il dialogo interno scatta in automatico e può richiedere adeguate strategie per gestirlo.
Durante un concerto, l’energia della musica viene in qualche modo amplificata dall’attenzione degli ascoltatori. Essere al centro dell’attenzione comporta una sorta di espansione delle percezioni e delle emozioni di chi suona; il musicista che si esibisce in pubblico ha bisogno di imparare a gestire questo potenziale energetico accettando e integrando, senza lasciarsi sopraffare, la carica emozionale prodotta da una sala affollata, che giunge appunto sotto forma di attenzione.
Il corpo e la vibrazione della musica
Sta definitivamente tramontando la cultura nella quale il ‘vero’ musicista ha il compito di sacrificarsi, soffrire, per raggiungere traguardi sempre più alti. Il mito della sofferenza e del martirio è stato accompagnato per molto tempo ad una incoscienza, quasi uno spregio della fisicità, come il corpo rappresentasse una resistenza da vincere. Un corpo rigido o teso difficilmente sarà in grado di canalizzare la varietà delle emozioni della musica; esso è il primo vero strumento musicale, che ha bisogno di essere messo nelle condizioni di ‘vibrare’ insieme alla musica.
Ancora oggi alcuni giovani sembrano manifestare una attitudine simile nel loro modo di studiare e suonare, ma, per fortuna, al di là delle posizioni estreme, molte scuole condividono il fatto che la consapevolezza del corpo, del gesto, della respirazione siano fattori indispensabili per una buona esecuzione. Un musicista, infine, ha bisogno di una formazione a livello corporeo anche perché nel tempo, studiando e suonando molte ore al giorno, in posizioni spesso innaturali, sottoposto a stress e viaggi, ha bisogno di sapere quali rischi corre e soprattutto come curarli (o meglio ancora, prevenirli) per evitare le tipiche malattie professionali. Ancora oggi incontriamo musicisti che non conoscono le più semplici leggi e comportamenti per mantenere il loro corpo in buona salute.
E’ importante in ogni caso che il musicista si renda conto che lo sviluppo della autoconsapevolezza fisica è un compito che dura tutta la vita e va di pari passo all’approfondimento e alla crescita artistica e umana. Una buona tecnica strumentale non può prescindere da una conoscenza sapientemente indirizzata del corpo, della fisiologia e della anatomia; tuttavia, né una buona didattica artigianale, né conoscenze oggettive e scientifiche possono sostituire lo sviluppo costante della cosiddetta propriocezione, ovvero la capacità di autopercepirsi. Un buon lavoro sul corpo connette le conoscenze oggettive al ‘sentire’, ‘percepire’ interiormente, al raffinamento della sensibilità. Imparare a ”sentirsi” consente di imparare a correggersi e migliorarsi, trovare da soli la soluzione di un problema, diventare consapevoli delle proprie possibilità, ottimizzare il tempo, sentirsi a proprio agio e sviluppare la fiducia in se stessi.
La Psicofisiologia promuove quindi un atteggiamento di ricerca sulla consapevolezza fisica, offrendo esperienze collettive, lavoro individuale e stimolando all’intuizione delle possibilità infinite di risveglio della sensibilità e delle facoltà creative del corpo. Intende inoltre divulgare quelle metodologie (come i metodi Alexander, Feldenkreis, Rolfing, Trager e tanti altri) e quelle terapie che, con strade diverse, hanno l’obiettivo di incrementare la consapevolezza corporea o risolvere specifiche problematiche posturali, incoraggiando i musicisti a sceglierle ed esplorarle approfonditamente in prima persona.
Non finiamo di stupirci di quali ‘miracoli’, letteralmente, possano avvenire, nelle capacità, anche tecniche ed interpretative, di un esecutore (oltre che nel suo benessere) dopo alcune sedute approfondite di lavoro sul corpo. Questo ci fa capire come abbiamo ancora tutto da capire e da scoprire sulla relazione tra corpo, fisicità, espressione musicale e capacità strumentali.
E’ bene sottolineare che occuparsi del corpo in termini puramente ‘meccanici’ o di ‘efficienza’ può impoverire molto il lavoro del musicista, come quando si lavora sulla ’tecnica’ strumentale in modo puramente ‘fisiologico’. La comprensione del corpo può venire enormemente arricchita a partire da modelli diversi da quello della pura efficienza, come i concetti di energia e di vitalità. Quale tipo di energia esprimono il nostro corpo e la nostra postura mentre suoniamo? Il nostro corpo favorisce l’espressione delle emozioni o le tende a bloccare e limitare? Quanto vitale e vibrante può e deve essere il corpo di un musicista? Come incentivare queste qualità?
Tra la consapevolezza corporea e l’auto-espressione c’è una stretta relazione, evidente dalla correlazione del gesto con l’atteggiamento psicologico e lo stato dell’esecutore. Offrire al gesto uno scopo espressivo e non solamente ‘funzionale’ (il che naturalmente è già un buon risultato, anche se non sufficiente) permette di assimilarlo più intensamente e di sollecitare una comprensione più profonda della ‘tecnica’ strumentale.
Interiorizzare la musica
Un alto livello interpretativo implica l’immedesimazione, l’identificazione con l’opera d’arte: un grande artista non dà l’impressione di ‘fare’ qualcosa ma piuttosto di ‘essere’ tutt’uno con ciò che sta suonando. Un gruppo di musicisti, un’orchestra di alto livello vivono, suonando, momenti di unità con gli altri e con la musica spesso invidiati dal pubblico non musicista. Talvolta la capacità di interiorizzare viene considerata un “a priori” , un dono del talento, un aspetto quasi impossibile da insegnare. In realtà, il processo di interiorizzazione viene costruito, consapevolmente o no, attraverso processi psicofisiologici. Per favorire il processo di interiorizzazione è necessario prendere coscienza del proprio modo di porsi a livello fisico, psicologico, mentale.
Un esempio efficace è l’appropriazione interiore del ritmo: spesso gli studenti con problemi ritmici tentano di trovare soluzioni concentrandosi su un ritmo esterno, utilizzano il metronomo o “contano” mentalmente mentre suonano. Il ritmo è una manifestazione di energia che si dispiega nella struttura musicale attraverso la metrica, l’articolazione delle frasi, il succedersi di tensionie distensioni, e molti altri livelli. La sua ‘comprensione’ a livello corporeo e non solo teorico e mentale o matematico è ineludibile; ‘sentire’ il ritmo implica la consapevolezza di tutti questi aspetti e il loro allineamento al sistema psicofisiologico dell’interprete Durante il seminari di Psicofisiologia gli studenti esplorano i rapporti tra interiorizzazione del ritmo e consapevolezza del movimento e della respirazione, la relazione tra ritmo e gesto e il cambiamento dei livelli di attenzione e percezione del tempo musicale nelle diverse fasi di elaborazione ed esecuzione di un brano.
Fondamentale è lo sviluppo della abilità di ‘eseguire’ interiormente un brano, rappresentando l’esecuzione in tutte le sue componenti uditiva, visiva, e cinestesica (le sensazioni tattili, ad esempio). L’esecuzione mentale è uno strumento potentissimo se svolto correttamente; usato ormai comunemente nello sport, fatica ancora ad imporsi nella formazione musicale, sebbene risulti storicamente utilizzato dai più grandi musicisti del passato, come ad esempio Paganini. A questo proposito è preziosissimo l’utilizzo delle submodalità della Pnl, che insegna a divenire sensibili all’effetto che a volte piccoli dettagli delle nostre immagini interne (la loro grandezza, ad esempio, o la loro luminosità) hanno nell’incrementare o inibire le nostre risorse. Perché siano efficaci, queste pratiche vanno associate in modo creativo alle emozioni e alla fantasia, affinché risultino vive e stimolanti per la mente conscia e per quella inconscia.
Cosa credi?
“La vita del musicista è ingrata”, “Suonare in pubblico è sempre uno stress” “non ho abbastanza talento” “E’ fatto così!”
Le convinzioni, ovvero ciò che crediamo della vita e di noi stessi influenza potentemente i nostri risultati e le nostre esperienze. Le convinzioni di un musicista (ad esempio: ‘ho le capacità per farlo’ o ‘non ho abbastanza talento’) possono indirizzarlo verso una vita di realizzazioni o di infinite frustrazione e insoddisfazioni. Possono riguardare ciò che ritiene di sapere o non sapere fare (‘non so suonare Beethoven’), le sue potenzialità (‘non riuscirò mai a suonare come lui’) , la sua stessa identità (‘sono un musicista realizzato’) e agiscono come una sorta di programma interno che influenza lo sviluppo delle sue risorse e del suo talento. Qualcuno ha definito le convinzioni ‘profezie auto-avverantesi’. In che senso possiamo accettare questa definizione?
Chi crede di non essere capace di fare qualcosa, tenderà ad impegnarsi poco, senza entusiasmo, quasi a conferma che sia giusto non crederci. Alla prima difficoltà, una voce gli dice: ‘vedi?’, ed ecco la conferma del ‘fatto’ oggettivo che non ce la farà; un tranello che lo induce, prima o poi, a desistere dall’impegno.
Le convinzioni inducono una sorta di ‘ipnosi’ che ci fa vedere quello che ci aspettiamo di vedere, o comportarci come ci aspettiamo di agire. Esse influenzano tutto il sistema psico-fisico e neurologico. Le convinzioni possono scatenare fiumi di adrenalina, bloccare la respirazione e la circolazione sanguigna. Per un musicista, il solo pensiero ‘adesso sbaglio’, durante una esecuzione, può fargli tremare le mani, irrigidire le spalle, a rrivare a bloccarlo e paralizzarlo fisicamente.
Spesso le convinzioni vengono assorbite, spesso in consciamente, da un maestro o dall’ambiente musicale (si può parlare di sistemi di convinzioni circolanti nell’ambito musicale). ‘ (Non) sei portato per questo genere’ ‘fanno carriera solo i raccomandati’ sono tipi di convinzioni molto diffuse e possono condizionare una intera vita, se non vengono mai messe in discussione o trasformate. Le convinzioni di un maestro riguardo al suo allievo sono uno degli strumenti più
potenti della formazione, potendo spingerlo in direzioni completamente opposte. E’ molto utile che i musicisti siano consapevoli delle convinzioni che hanno, di come influenzano la loro vita, le loro capacità e soprattutto di come imparare a modificarle.
Le convinzioni toccano anche ciò che si crede importante, ovvero i valori e le motivazioni profonde. Questo è un tema delicato e forse tra i più determinanti per la Psicofisiologia. Un buon lavoro sui propri valori può capovolgere la vita di una persona , tanto più quella di un musicista che, durante gli studi, può sviluppare confusione riguardo a ciò che vuole veramente o, nel corso del tempo, arrivare a perdere l’entusiasmo e il desiderio di crescere e rinnovarsi. Particolarmente istruttivo, a questo proposito, il commento svolto da uno studente di un corso di Psicofisiologia, su un questionario anonimo:
E’ stato molto interessante soprattutto perché non ho mai sentito parlare di questi argomenti, nonostante abbia conseguito il diploma da soli due anni. Credo che un corso analogo servirebbe anche agli insegnanti, soprattutto agli insegnanti più anziani che hanno perso di vista gli obiettivi primari dell’insegnamento.
L’arte di studiare
La fase dello studio è la colonna portante di tutta la vita artistica e professionale del musicista. Usiamo l’espressione ‘arte di studiare’ al posto di quella più comune ‘metodo di studio’, per riferirci a quell’insieme di strumenti, qualità e atteggiamenti generali che riguardano la relazione con lo studio e vanno al di là delle infinite differenze tra i vari metodi e le varie scuole. Una sorta di livello più ampio, che potremmo chiamare anche meta-apprendimento. Il modo di studiare cambia man mano che le esperienze ci arricchiscono, le conoscenze aumentano, le informazioni e metodi vengono integrati ma l’arte di studiare in modo efficace e consapevole viene determinata dalla nostra capacità di guidare e sostenere responsabilmente i nostri processi di apprendimento; come la consapevolezza corporea, alla quale è strettamente collegata, l’arte di studiare si evolve costantemente durante tutta la vita. Prevede la possibilità di migliorare e modificare il proprio metodo di studio attraverso un atteggiamento fluido di costante disponibilità, diventando ‘maestri di se stessi’.
Il primo requisito di uno studio efficace è che sia svolto in armonia e integrità con le proprie motivazioni profonde. Una preparazione condotta senza entusiasmo, una qualche forma personale di ambizione, miglioramento, crescita o successo, non potrà mai condurre a risultati eccellenti. Conoscersi e sapere cosa ci ‘sveglia’, accende l’entusiasmo, mobilita l’incremento delle nostre risorse e sapere utilizzare queste conoscenze attiv amente è il primo passo, che dona l’energia per affrontare tutte le difficoltà, gli scogli, gli impedimenti che inevitabilmente si trovano sul cammino.
Vogliamo qui sottolineare alcuni atteggiamenti e convinzioni utili allo sviluppo di uno studio creativo.
L’esperienza comune suggerisce che, particolarme nte mentre studia, il musicista può cadere in meccanismi automatici, dove prevalgono le abitudini e la ripetitività, quando non addirittura un atteggiamento ossessivo e nevrotico. Una convinzione molto utile nella fase di preparazione è quella secondo la quale non esistono errori, ma solo apprendimenti. Ogni errore è un ‘feedback’ che ci sta insegnando qualcosa. Anziché reagire biasimandosi o dandosi spiegazioni preconfezionate, un musicista esperto sa osservare senza giudicare, per mettendosi una sufficiente ‘distanza’ emotiva per osservare cosa non ha funzionato. Osservando ciò cha ha fatto con distacco, egli può innanzitutto valorizzarne gli aspetti positivi, e successivamente chiedersi cosa è necessario cambiare, fare o
pensare per migliorare; ad esempio, sviluppare la ricerca di nuove strategie, mettere più attenzione al corpo o a qualche specifico aspetto musicale e via dicendo. La ripetizione meccanica dei passaggi, tanto praticata da studenti come da musicisti in carriera, consuma molte energie e nasconde la paura di non farcela, come in una continua sfida con se stessi. Oltre ad essere inefficace, in quanto fa perdere molto tempo, la ripetizione meccanica finisce per rinforzare quello che voleva evitare, ovvero l’insicurezza e l’ansia.
Spesso un simile atteggiamento nasconde una carenza di strategie di studio adeguate, o la paura di metterle in discussione. Questo conduce ad un’altra importante abilità, ossia quella di sapersi porre domande e soprattutto le domande giuste. Cosa intendiamo?
Ogni nostra azione comportamento è una risposta a qualche domanda, implicita o esplicita, conscia o inconscia. Ad esempio ‘cosa è più importante in questo brano?’ è una domanda che determinerà le mie scelte interpretative. ‘Come fare per risolvere questo problema? ‘ è una domanda che orienta le mie energie e la mia attenzione verso una soluzione del problema.
Ma se, studiando, mi domando: ‘ce la farò?’ , oppure: ‘chissà se farò bella figura!’, o ancora: ‘perché a lui viene così bene e a me no?’, indovinate dove andranno la mia attenzione e la mia energia! Ci sono domande utili e domande devianti.
Chiedersi costantemente il perché delle cose (‘perché sbaglio sempre questo passaggio?), di solito è meno utile che porsi domande che ci portano nella direzione di un risultato (‘cosa posso fare per risolvere questo passaggio?’).
La crescita artistica, come quella umana, è quindi legata alla capacità di porsi nuove domande, più creative e stimolanti. La creatività, a sua volta, è influenzata dal senso del tempo.
Anche il musicista, come tutti oggi, è pressato dal ‘tempo’ esterno che richiede lo svolgimento di compiti sempre più difficili in ‘tempi’ sempre più rapidi. Tutti devono affrontare la sfida dello stress legato al tempo, che sembra non essere mai abbastanza. La bellezza, la magia di studiare senza limiti di tempo sembra divenuta ormai il privilegio di pochissimi. La gestione dell’attenzione raffinata, permette, letteralmente, di imparare a ‘dilatare’ o ‘contrarre’ il tempo. Ogni musicista sa per esperienza che un tempo rapido, musicalmente parlando, può venire vissuto come se fosse lento, quando la percezione è intensamente focalizzata momento per momento nel flusso musicale. Questo permette di comprendere come la rapidità dello scorrere del tempo sia qualcosa di soggetto al modo in cui viviamo le nostre percezioni. Studiare ‘dilatando’ il tempo attraverso la gestione dell’attenzione e delle percezioni è uno strumento interessante e spesso sorprendente per ottimizzare i tempi di studio.
Luoghi comuni su quante ore al giorno di studio siano richieste ad un musicista spesso si limitano ad enumerare la quantità di tempo senza definire con precisione gli elementi che invece danno qualità allo studio, e come tali rendono variabile il tempo necessario per ottenere gli stessi risultati.
Convinzioni che tendono a favorire un atteggiamento passivo per cui ciò che conta è lo scorrere delle lancette dell’orologio.
In realtà, gli squilibri nella gestione del tempo e della attenzione dipendono perlopiù dalla confusione di obiettivi. Un musicista può avere una o due ore di tempo a disposizione in una giornata; per rendere fruttuose, deve essere in grado di formulare obiettivi chiari e realistici che indirizzino in modo preciso e inequivocabile lo studio, senza dispersioni. E’ un’esperienza comune a tutti i musicisti, quando i tempi si riducono (per esempio quando passano dal ruolo di studenti a quello di professionisti, magari anche con una famiglia a carico) di essere costretti ad imparare sfruttare al meglio il tempo disponibile. La chiarezza dello scopo nello studio, momento per momento, aiuta ad eliminare la confusione e fa accrescere un altro degli aspetti che amiamo sottolineare: uno studio veramente efficace è necessariamente piacevole.
Il senso del piacere può essere soggettivo e puòvariare a seconda dei momenti. Può manifestarsi come piacere fisico nel suonare, come stimolo intellettuale, come senso di gratificazione e di soddisfazione, come emozione e ispirazione. Per alcuni il piacere dello studio è dato dall’anticiparsi, con l’immaginazione, il momento del concerto, dell’esame o del concorso. Avere un obiettivo e finalità precise e motivanti è altamente stimolante, anche se, portata all’eccesso, può spingere eccessivamente nella proiezione verso il risultato, creando ansia ed eccesso di aspettative.
Per altri, invece, il vero piacere dello studio nasce da un atteggiamento curioso, esplorativo maggiormente centrato sul momento presente; il rischio di chi vive esclusivamente nel presente ‘continuo’è quello di disperdere energie e tempo senza obiettivi e risultati precisi.
In ogni caso, una sessione di studio che renda il corpo stanco e teso, la mente affaticata, la sensibilità annebbiata, difficilmente porterà buoni frutti. Alcuni associano lo studio al dovere anzichè al piacere; in questi casi il primo passo per imparare a coltivare la piacevolezza è quella di cambiare il punto di vista al riguardo, attuando una revisione dei valori, delle motivazioni, come anche delle percezioni durante lo studio.
Pazienza e disciplina sono valori spesso oggi poco incentivati dalla cultura dominante, e quindi spesso mal compresi. Alcuni la interpretano come lo sforzo di reprimere la frustrazione per non essere già arrivati dove desiderano. Al contrario, la pazienza è proprio l’espressione della fiducia di poter arrivare dove aspiriamo, ed è connessa all’autostima. Avere pazienza consente di tollerare le frustrazioni che inevitabilmente si vivono senza perdere lo slancio e il desiderio di continuare. Se di fronte ad ogni difficoltà, un musicista tende a cadere in uno stato di frustrazione o scoraggiamento, probabilmente ha bisogno di scoprire la vera radice dell’autostima. Essa nasce essenzialmente da una sensazione di meritare la felicità e l’appagamento e dall’impegno ad assumersi la responsabilità del proprio sviluppo personale.
Come diceva il grande pianista Claudio Arrau, talvolta la paura del successo è altrettanto potente della paura dell’insuccesso. Forse sono strettamente intrecciate, e chiedono all’artista di fare i conti con la propria immagine di sé. Quanto un musicista può crescere, diventare creativo, superare i suoi limiti, le sue paure, dipende molto da quanto riesce a lasciar andare l’immagine di sé ideale o vi resta imprigionato. Può essere un modello di perfezione, un immagine legata ai suoi successi passati, ma tutto il bisogno di approvazione o di riconoscimento svanisce quando inizia a scegliere di vivere, suonare, agire in base al principio di autorealizzazione e al piacere di esprimersi.